sabato, Aprile 27, 2024
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Milano, 6 febbraio 2024

Illustrissimo Signor Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano dott.ssa Francesca Nanni,
Illustrissimo Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano dott.ssa Giovanna Di Rosa

ci rivolgiamo pubblicamente a voi come operatori, volontari, associazioni e realtà a vario titolo legate all’ambito
penitenziario, per esprimere la nostra preoccupazione rispetto al procedimento in corso a carico di due operatrici
sanitarie, che prestano il loro servizio professionale nella Casa Circondariale di Milano San Vittore.

Anzitutto ci preoccupa che chi dedica con fatica la propria professionalità per realizzare il mandato che la legge
attribuisce al carcere, venga colpito nell’esercizio del proprio lavoro. Se è vero che “il trattamento penitenziario
deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona” (art. 1, L. 26 luglio 1975,
n. 354), stupisce che in Italia nel 2023 si sono tolte la vita in carcere 69 persone e l’anno precedente 84. Come
ignorare questi drammatici numeri e sottovalutare l’importanza dell’attività di prevenzione suicidaria, che
psicologhe e psicologi svolgono quotidianamente nei confronti di tanti detenuti? Senza il loro apporto questi
numeri sarebbero tragicamente più alti: le psicologhe e gli psicologi in carcere salvano vite.

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare. Chi lavora in carcere sa bene che il problema più grande con cui si
sta confrontando il sistema penitenziario è la gestione di una popolazione detenuta con un altissimo tasso di
malattia psichiatrica, anche grave, o con ritardo cognitivo. All’interno delle Case Circondariali e delle Case di
Reclusione ci sono migliaia di detenuti che non hanno caratteristiche diverse da coloro che ricevono un misura di
sicurezza nelle Rems; l’unica differenza sta nel fatto che su di loro nessuno ha disposto una perizia che ne certifichi
la patologia psichiatrica o un approfondimento che ne evidenzi il ritardo cognitivo, vale a dire circostanze che
potrebbero vedere ridotta parzialmente o completamente la facoltà di intendere e di volere. E così queste
persone vanno a giudizio, senza poter contare su una valutazione reale della propria responsabilità penale nel
reato contestato e ricevono un trattamento giudiziario analogo a quello delle persone sane e normodotate, quali
però non sono. In questo modo il dettato costituzionale per cui “le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità” (art. 27, co. 2, Cost.) risulta disatteso, in quanto una persona malata viene
sottoposta ad una pena e non ad una cura. Chi può intervenire in questo perverso meccanismo? La perizia
psichiatrica può essere richiesta dal giudice competente o dal difensore dell’imputato, ma per molte ragioni
questo non si verifica nella maggior parte dei casi. Chi invece è al corrente della salute mentale delle persone
sottoposte a giudizio sono gli operatori penitenziari, che conoscono da vicino la persona e, nella fattispecie di
psicologi e psichiatri, possono evidenziarne disturbi e patologie. Perché allora pensare di penalizzare la
condivisione di informazioni relative alla salute mentale delle persone detenute, da parte degli operatori sanitari
del carcere nei confronti dell’Autorità Giudiziaria? Riteniamo infatti che questa prassi non solo non sia da
penalizzare, ma da incentivare, soprattutto prima che venga emessa la sentenza dal giudice competente, affinché
questi ne possa tenere conto ed, eventualmente, disporre gli opportuni accertamenti, necessari ad un
pronunciamento equo.

Infine ci preoccupa la modalità con cui si sono attuate le perquisizioni disposte nei confronti delle due operatrici
sanitarie. Se è vero che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (art. 27, co. 3,
Cost.), perché coinvolgere in modo diretto le famiglie delle operatrici? Perché impiegare una quantità così ingente
di personale e di mezzi delle Forze dell’Ordine? Perché condurre e trattenere le operatrici in carcere per gli
accertamenti sotto gli sguardi degli altri operatori e delle persone detenute? Perché effettuare la perquisizione
degli uffici sanitari durante l’orario di lavoro e sotto lo sguardo della popolazione detenuta? Non sappiamo dare
risposta a queste domande, ma possiamo assicurare che quanto descritto ha come risultato l’intimidazione di
tutti gli operatori e rischia di intaccare la fiducia nel loro operato da parte delle persone detenute ed dell’opinione
pubblica.

Ringraziandovi per l’attenzione prestata a queste nostre considerazioni, ci rivolgiamo a voi perché possiate tenere
conto delle nostre preoccupazioni; siamo disposti ad una interlocuzione qualora le signorie vostre ritenessero di
ascoltarci.

Cordiali saluti.

CLICCA QUI PER CONOSCERE LE ADESIONI ALLA LETTERA APERTA, AGGIORNATE AL 16 FEBBRAIO 2024

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